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Beata BENEDETTA Bianchi Porro

“Benedetta spegne il dolore facendolo fiorire in amore”

di Deborah Cabiddu

Sessant’anni fa, il 23 gennaio del 1964, nasceva al Cielo la Beata Benedetta Bianchi Porro, venuta al mondo l’8 agosto del 1936 a Dovàdola, un piccolo comune italiano della provincia di Forlì-Cesena in Emilia-Romagna.

Nelle prime ore di vita Benedetta è colpita da un’emorragia, motivo per cui la madre stessa le amministra il battesimo. Ripresasi, dopo pochi mesi contrae la poliomielite che le lascia una gamba più corta e sottile.

Di fronte alla derisione dei suoi compagni che la chiamavano “la zoppetta”, la piccola Benedetta non si impensierisce, anzi gioca e corre senza difficoltà rivelando di possedere i doni della fortezza, della mitezza e dell’umiltà, grazie ai quali Dio costruirà un “CAPOLAVORO DI VITA” (Comastri).

È una bambina gioiosa, attenta e premurosa, “capace di essere felice per un nonnulla”, straordinariamente sensibile nei riguardi della natura e del creato, sul quale riesce a intravedere l’opera meravigliosa di Dio.

Sin da giovanissima, su consiglio della madre, scrive un diario dove annota gli eventi della sua vita.

Curiosa e appassionata, si applica allo studio con grande diligenza conseguendo ottimi risultati.

Durante l’adolescenza viene aggredita da una malattia degenerativa gravissima, la neurofibromatosi diffusa o morbo di Recklinghausen che lei stessa, studentessa di medicina, diagnosticherà “in perfetta conoscenza”, cioè sapendo che a tal male “non c’è rimedio” (Turoldo).

All’inizio si manifesta una fastidiosa sordità che procura a Benedetta tante umiliazioni, soprattutto nello studio.

Sono gli anni contraddistinti da una grande crisi e dal forte desiderio di placare l’agitazione che pervade il suo animo, tanto da sentirsi sprofondare in una “palude infinita e monotona”.

Con il crescere dei disagi fisici Benedetta comincia a porsi degli interrogativi che inizialmente confida alla sua prima amica del cuore, Anna Laura Conti, cui seguiranno Maria Grazia Bolzoni e Nicoletta Padovani. Da questi splendidi rapporti di amicizia scaturirà un fitto scambio epistolare che produrrà abbondanza di frutti spirituali per ciascuna di loro.

Nel 1953 si iscrive all’Università dapprima in Fisica, “per accontentare il babbo”, e poi in Medicina assecondando così il suo sogno di diventare medico. Nonostante i problemi della sordità, continua a studiare con molto impegno superando di volta in volta gli esami previsti.

Negli anni successivi il suo stato di salute si aggrava ulteriormente e viene ricoverata per vari interventi.

Nel 1960, non avendo superato l’ultimo esame universitario, prende più consapevolezza del repentino incedere della sua malattia e rinuncia agli studi. In questo momento avviene una svolta, una trasformazione che porta Benedetta a vivere il mistero della sofferenza come un dono.

In una lettera indirizzata alla mamma scrive: “Cara mamma quanto a me io sto come sempre ma da quando io so che c’è Chi mi guarda lottare cerco di farmi forte. Com’è bello così mamma: io credo all’amore disceso dal cielo, io credo a Gesù Cristo e alla sua Croce gloriosa, sì io credo all’Amore. Tu mi dirai mamma che io in Gesù ci sono nata, sì ma prima lo sentivo così lontano, ora so invece che Dio è dappertutto anche nel dolore. Dio non ci abbandona…IL REGNO DI DIO È IN NOI”.

Scrive a Maria Grazia: “Io penso che cosa meravigliosa è la vita anche nei suoi aspetti terribili e la mia anima è piena di gratitudine e di amore verso Dio”.

Il 24 maggio del 1962 va a Lourdes per chiedere la grazia della guarigione, ma arrivata lì conosce una ragazza paralizzata alle gambe e prega per lei che miracolosamente si alza e cammina.

Nell’estate del 1963, a seguito di altri interventi, Benedetta giace immobile nel suo letto nella casa dei genitori a Sirmione sul Garda, quasi completamente paralizzata: muove soltanto le mani, non ha più l’udito, la vista e l’olfatto, le rimangono soltanto il tatto nella mano destra ed un flebile filo di voce. La mano destra sarà l’unica via di comunicazione: la mamma le trasmette le parole tracciando attraverso quella mano le lettere dell’alfabeto.

Il Signore le chiede tutto e lei si spoglia di tutto. Vive in prima persona le parole di San Paolo: “Non sono io che vivo in Cristo ma Cristo vive in me”. Mentre questo avviene, Benedetta diventa un inno alla gioia, una gioia colma di gratitudine che riversa, tramite le sue lettere, dettate e trascritte dalla mamma, su tutti coloro, e sono tantissimi, che le scrivono o le fanno visita. Non c’è alcuno che non riceva parole di conforto e incoraggiamento, forza e speranza. “Benedetta spegne il dolore facendolo fiorire in amore” (Comastri).

Da dove viene la gioia di Benedetta? Come può una paralizzata, cieca, sorda arrivare a toccare il cuore delle persone che non vede, non sente, non percepisce se non attraverso il tocco ad una mano debole e scarna?  È proprio vero che Dio, come dice San Paolo, sceglie i deboli per confondere i forti. Nel momento in cui Benedetta rinuncia ai suoi progetti e decide di aderire al progetto di Dio, Lui la ricolma di gioia. Rinunciando a se stessa e donandosi al suo Creatore in un atto di abbandono e fiducia totale, Benedetta anticipa e attualizza le parole “Non io, ma Dio” (Beato Carlo Acutis) e vive nel profondo il comandamento dell’Amore tanto che dirà: “LA CARITÀ È ABITARE NEGLI ALTRI”.

Nel primo pomeriggio del 22 gennaio 1964 l’assale una febbre leggera. Dopo la cena Benedetta chiama la mamma e le dice: “Mamma vorrei che ti inginocchiassi accanto a me per ringraziare il Signore per tutto quello che mi ha dato”. La mamma guarda la figlia e le comunica: “No, io non ho questa generosità”. La mamma vede che gli occhi, che da tempo non lacrimavano più, si stanno riempiendo di lacrime. Allora si inginocchia e dice: “Se tu lo vuoi, sì, ringrazio il Signore”.

Il 23 gennaio un uccellino si posa sul davanzale, la mamma guarda fuori dalla finestra e vede che in un’aiuola è sbocciata una rosa bianca, un "dolce segno” che Benedetta aveva già visto in un sogno e riferito ad un’amica.

In quel giorno, memoria dello Sposalizio della Vergine, alle 10.30, all’età di 27 anni, Benedetta conclude la sua vita terrena e va incontro allo Sposo. Viene portata al cimitero di Sirmione e poi seppellita nel cimitero di Dovàdola. Cinque anni dopo la sua salma viene traslata all’ Abbazia di Sant’Andrea dove riposa ancor oggi.

Il 14 settembre 2019, alla presenza di circa duemila persone,  viene proclamata beata nella Cattedrale di Forlì, in una cerimonia presieduta dal cardinale Giovanni Angelo Becciu, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi.

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

 

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