Pillole di SpiritualiTà
Il vero spirito di fede porta una persona a staccare lo sguardo da se stessa, per volgerlo verso Dio. (Beato John Henry Newman)
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"Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" Gal 2,20
intervento del cardinal Mauro Piacenza
Sono molto lieto di partecipare al vostro annuale Convegno e ringrazio di cuore sia per l’invito sia, soprattutto, per il titolo: “L’anima dell’apostolato”, che rimanda con forza al celebre testo di Dom Chautard – “L’anima di ogni apostolato” – e alla grande tradizione monastica di Columba Marmion. Ritengo che, in questo nostro tempo, sia un tema centrale dell’agire e dell’autocoscienza della Chiesa.
Articolerò questo mio intervento in tre parti: nella prima cercherò di trattare la radice dell’apostolato; nella seconda il valore soprannaturale dell’apostolato e nella terza l’espressione ecclesiale dello zelo apostolico.
È fuori dubbio che l’anima di ogni apostolato, la radice da cui esso trae la linfa, ciò che rende l’apostolato permanentemente vivo, sia la profonda, totale, totalizzante e performante immedesimazione del cristiano con Cristo. Potremmo dire che ogni apostolato si fonda esclusivamente sull’affermazione paolina: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
L’apostolato, in effetti, è quanto di più lontano ci possa essere da ogni “deriva funzionalistica”.
Su questo aspetto, vorrei soffermarmi un istante, poiché è evidente a tutti come, anche nei nostri ambienti ecclesiali, talora così condizionati dalla mentalità mondana, possa entrare e dilagare una tentazione di tipo funzionale. L’apostolato non dipende dalle strutture, non dipende dall’aggiornamento dei linguaggi, non dipende dalla mondanizzazione del Vangelo e della Chiesa! Al contrario, ogni tentativo, a volte perfino violento, di mondanizzare il Vangelo e le sue esigenze, piegandole alla mentalità dominante, risulta assolutamente inefficace, e la bellezza del Vangelo ne risulta umiliata e sfigurata.
Non è certamente rincorrendo il mondo che saremo più interessanti e più affascinanti per l’uomo contemporaneo! Non è abbassando il livello delle esigenze di fede e delle esigenze morali, che il cristianesimo tornerà ad essere una fede compresa e vissuta. Esattamente il contrario: solo vivendo fino in fondo le esigenze evangeliche, potremmo essere, in un certo qual modo, interessanti e degni di stima per gli uomini del nostro tempo. Dunque, la questione non è – e non sarà mai – diluire il Vangelo, nelle sue esigenze, né addomesticare la radicale “pretesa” di Cristo di essere Dio nel mondo. Al contrario, prima di ogni preoccupazione funzionalistica, è necessario e urgente che l’azione apostolica fiorisca da una radicale immedesimazione con Cristo.
L’apostolato, allora, prima e più efficacemente che essere un’azione “ad extra”, è un modo di essere, un modo di pensare, un modo di vivere e di respirare.
Che cosa intendo con questa espressione? Partirei da un primissimo piano, affermando che, per colui che ama Cristo, per colui che Lo ha davvero incontrato e si è immerso nel Suo Amore, gli “interessi di Cristo” diventano i propri interessi. C’è una radicale immedesimazione con il Signore, per cui il Suo modo di pensare, il Suo modo di giudicare, il Suo modo di agire, divengono il modo di pensare, di giudicare e di agire proprio del cristiano. L’apostolato, allora, prima e più efficacemente che essere un’azione “ad extra”, è un modo di essere, un modo di pensare, un modo di vivere e di respirare. L’apostolo è colui che è talmente immedesimato con Cristo, da non riuscire nemmeno a concepire se stesso prescindendo dal suo Signore.
L’adagio Paolino, che citavo prima – «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» –, non deve inizialmente essere interpretato in chiave moralistica, perché tutti noi siamo distantissimi da questa piena realizzazione che chiamiamo santità. L’immedesimazione è innanzitutto una questione ontologica, uno “status” che abbiamo ricevuto nel Santo Battesimo e ci è stata confermata nella Santa Cresima. Per coloro di noi che poi sono stati insigniti dell’Ordine sacerdotale, questo dono è stato ulteriormente confermato e dilatato in quello che è il ministero soprannaturale, che ci è stato affidato, derivante dalla configurazione ontologica a Cristo Sacerdote. L’immedesimazione con Cristo è innanzitutto un dono di grazia, che gratuitamente è stato fatto a coloro che si sono lasciati prendere da Cristo e che progressivamente si dilata fino a divenire esso stesso azione apostolica.
Da questa indispensabile premessa di natura ontologica, deriva una conseguenza immediata e visibile: quanto dicevo poc’anzi, cioè l’interesse per le “cose di Cristo” e per le “cose della Chiesa” si traduce in quel motto della tradizione cristiana che chiamiamo “Passio Gloriae Christi – Passione per la Gloria di Cristo”. Che cosa intende la Chiesa con questa espressione? Dobbiamo riconoscere che, sulla Gloria eterna di Cristo, quella che il Padre gli ha dato con la Risurrezione e con l’Ascensione al Cielo, noi non abbiamo alcun potere. Di quella Gloria, possiamo semplicemente essere testimoni, la godremo un giorno e ne possiamo intuire la potenza in alcuni aspetti della vita della Chiesa terrena.
Quando si parla della Gloria di Cristo, declinandola per noi che siamo ancora in cammino, si intende esattamente la Gloria terrena del Signore: essa consiste nel fatto che tutti gli uomini Lo possano conoscere, riconoscere come vero Dio e vero Uomo, seguire come discepoli e servire. La Gloria terrena di Cristo viene a coincidere, allora, proprio con l’opera dell’apostolato, quando questa giunge al proprio compimento. E la passione per questa Gloria, la passione per la Gloria di Cristo, la passione per la Gloria terrena di Cristo è esattamente lo zelo apostolico, di cui questo nostro convegno vuole occuparsi.
Allora il primo modo per immergersi totalmente nell’apostolato è immergersi totalmente in Cristo
vivere una profonda immedesimazione con Lui, frequentare assiduamente la Sua parola e i Suoi Sacramenti, vivere un rapporto di intensa e fedele preghiera, nella quale ascoltare profondamente la Sua Voce, vivere con assiduità il rapporto con l’Eucarestia e con la Riconciliazione sacramentale, che sono le due colonne, attraverso le quali sempre passa la nave della Chiesa, secondo il sogno di Don Bosco, attraversando ogni tempesta, anche le più travolgenti.
Questa immedesimazione con Cristo porterà con sé la passione per la Sua Gloria, cioè il desiderio che tutti Lo possano conoscere, come noi Lo abbiamo conosciuto, e che tutti Lo possano amare e servire, come noi cerchiamo di amarLo e di servirLo. La passione per la Gloria di Cristo coincide così anche con la dilatazione del Regno di Dio, che, storicamente parlando, altro non è se non la dilatazione della famiglia della Chiesa. Il Concilio Vaticano II ci ha ricordato come tutti gli uomini siano ordinati a Cristo, abbiano Cristo come fine della propria vita. E allora non dobbiamo aver paura di invitare i nostri fratelli uomini ad incontrare il Signore, tenendo presente che non si tratta tanto di moltiplicare i numeri, quanto di dilatare l’immedesimazione.
La differenza tra un sano apostolato ed un settario proselitismo sta esattamente in questo: chi si preoccupa di fare proseliti, guarda unicamente ai numeri, senza considerare l’essenza intima del rapporto col Mistero. Chi invece fa serio apostolato – se volessimo dirla con termini più moderni, chi fa “opera di evangelizzazione” – è sostanzialmente preoccupato che l’altro incontri davvero Cristo, in un incontro totalmente libero e personale, e, nel contempo, totalmente “ecclesiale”, cioè, mediato dal Corpo di Cristo che è la Chiesa e, in essa, da coloro che già le appartengono.
L’anima dell’apostolato, allora, è l’immedesimazione radicale con Cristo, dalla quale nasce la passione per la Gloria terrena di Cristo, che è passione per la dilatazione del Suo Regno e, nel contempo, reale passione, quasi struggimento, per ogni uomo, per ogni singolo uomo fatto ad immagine e somiglianza di Dio, perché egli possa incontrare, realmente ed efficacemente, il Signore Risorto. Solo l’incontro con Cristo dilata gli orizzonti della vita, solo l’incontro con Cristo conferisce alla vita quel nuovo orizzonte e quella direzione decisiva, da cui scaturisce un senso pieno anche per l’uomo contemporaneo.
Non dobbiamo, perciò, preoccuparci, di “rincorrere il mondo”;
al proposito, talvolta proprio per questo si diventa ridicoli, o meglio, penosi. Il mondo è il mondo e fa il suo lavoro: distrarre continuamente da Cristo. In questo nostro tempo, soprattutto nel cosiddetto Occidente secolarizzato, pare che tutto congiuri a tacere di Cristo, come una vergogna della quale in qualche modo scusarsi. Cristo non è certo la nostra vergogna. Cristo è la nostra gloria! E, con Lui, anche la Chiesa, così ferocemente attaccata in questi ultimi decenni, è il Suo Corpo, il Suo Corpo Mistico!
E amandola e servendola, noi amiamo Cristo e serviamo Cristo. Questa passione per la Gloria di Cristo è, ovviamente, direttamente proporzionata al grado di immedesimazione con Lui. Se si spegne, ossia se diminuisce il nostro zelo apostolico, dobbiamo subito chiederci com’è il nostro rapporto con Cristo. Qualunque sia la nostra vocazione, sia laicale, sia sacerdotale, la radice è sempre la stessa: ogni stanchezza nell’annunciare Cristo e nel dilatare il Suo Regno si fonda sulla tiepidezza della preghiera, sull’indebolimento del rapporto con Lui. In tal senso, dilatando l’orizzonte a livello ecclesiale e universale, non possiamo non riconoscere come anche una certa stanchezza nell’indispensabile opera di evangelizzazione della Chiesa stessa affondi le proprie radici in una crisi di fede. La reale crisi, in questo nostro tempo, non
è tanto nella novità della comunicazione, né nel fatto che, oggettivamente, la Chiesa abbia perso quella capacità di influenza anche sociale e culturale, che indiscutibilmente ha avuto nei secoli passati.
Il vero dramma, l’autentico dramma, è che la Chiesa rischia, in taluni suoi membri, di essere più debole nella professione di fede. Solo una fede forte, retta, robusta, fiera è capace di destare interesse. Criticheranno, non comprenderanno, ma dovranno stimare coloro che hanno autentica fede e che vivono conseguentemente alla propria fede. Allora, il primo “motore” di ogni apostolato, l’anima di ogni apostolato è la riscoperta della fede, l’irrobustimento della fede, da cui ogni altra opera deriva. Senza questa coscienza, senza questa oggettiva priorità, ogni azione apostolica è destinata a fallire.
Il video integrale della relazione è reperibile sul canale YouTube della FCIM:
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