Pillole di SpiritualiTà
Buttiamoci ai piedi del Signore e supplichiamolo perché ci restituisca la sua amicizia e ci ristabilisca in una magnifica e casta fraternità d'amore. (San Clemente I, papa)
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PER CRUCEM AD LUCEM
di P. Cesare Cuomo icms
Parlare di sofferenza ai giovani di oggi può non essere facile. Viviamo, infatti, in una società che equipara la sofferenza all’infelicità, proponendo come modello di felicità l’opposto, cioè l’esperienza del piacere, del successo umano, della ricchezza materiale… e perché? Perché il mondo in cui viviamo, avendo perso la fede ed essendo diventato fortemente materialista, ha smarrito la prospettiva soprannaturale della nostra esistenza. Quelle sono, perciò, le sole cose che rimangono, i soli beni a cui aspiriamo, oggetto di una speranza solo umana, che però non può colmare l’anelito di felicità eterna che è presente nel profondo del cuore umano. Vivere così, negando ostinatamente la prospettiva soprannaturale, significa alimentare un’illusione che, prima o poi, porta alla disperazione, forse proprio alla fine della vita. Per fortuna, quando ci si accorge presto dell’errore, cioè da giovani, evitiamo di sprecare il nostro tempo, anche se il disincanto che proviamo comporta quasi sempre un’esperienza dolorosa.
Quando tutto intorno a noi è tranquillo, quando tutto procede secondo i nostri “piccoli desideri”, quando il successo ci inebria, finiamo per sentirci padroni assoluti del nostro destino e ci sentiamo autosufficienti. Dimentichiamo il vero Dio e ci creiamo degli “idoli”, chiamati bellezza, ricchezza, forza, ambizione, piacere… e li adoriamo al suo posto.
Così, dimentichi della realtà suprema, ci abbandoniamo alle illusioni e alle apparenze del mondo sensibile; finiamo per lavorare faticosamente per acquisire un’effimera felicità terrena, che passa, come il fiore del campo.
È a questo punto che il Signore interviene e permette qualche evento, sfortunato e doloroso. Egli permette che i nostri “idoli” vengano infranti, che troviamo amarezza e delusione laddove pensavamo di assaporare la dolcezza del piacere e della gioia.
Così, siamo aiutati a convincerci che la felicità non va cercata nelle creature, ma al di sopra e al di là di esse. Impariamo, attraverso l’amarezza delle cose di quaggiù, ad amare i valori che ci attendono nell’ eternità e per i quali siamo stati creati.
Dio non vi ha mai amato tanto – dice Sant'Agostino – come quando ha cancellato tutto ciò che avevate fatto per la vostra prosperità. E, se era stato generoso nel darvi ricchezze, onori, salute, è stato ancora più generoso quando vi ha tolto tutti questi beni!
Certo, si tratta di una visione incomprensibile e “strana”, per chi si rifiuta di credere! Accettare la sofferenza, come una lezione e un invito da parte di Dio, è una questione di fede. Lui, che ci conosce perfettamente, sa chi siamo, che cosa abbiamo fatto nella nostra vita; e sa, meglio di noi, qual è il modo più sicuro per trarne frutti di vita eterna, anche rimediando e riparando agli errori del passato.
Nessuna prova ci lascerà come ci siamo trovati, perché l’agire di Dio nella nostra vita ha sempre un obiettivo preciso, che si rivela in tutta la sua bontà nella misura in cui cerchiamo di accondiscendervi.
Chiedendo ai Pastorelli di offrire le loro sofferenze, come atto di riparazione dei peccati che si commettono nel mondo, la Madonna ha voluto insegnare a tutti noi come si soffre. È nella perseveranza, con spirito di fede, quindi, che la sofferenza acquista significato e valore, al punto da poter dire che solo questa è la strada per la vera e più profonda felicità. Un sacerdote “Oratoriano”, p. Botta, ha scritto un libro dal titolo curioso: Sto benissimo, soffro molto. Sembra un paradosso, ma le cose vanno bene quando riusciamo ad apprezzare e a valorizzare l’inevitabile sofferenza della nostra vita. Inevitabile, perché, comunque vada, possiamo fare di tutto per liberarcene, ma fin quando non decidiamo di abbracciarla, con spirito di fede, siamo comunque nell’angoscia. Scappiamo da una forma di sofferenza, subito ne inizia un’altra. Un esempio: fuggo da tutto ciò che riguarda il “fare del bene”, perché può costarmi, può essere faticoso; ma finisco per soffrire, perché poi avverto un senso di vuoto, di insoddisfazione, che si alimenta nel mio cuore.
La sofferenza è, quindi, la fedele “compagna di viaggio” di ogni persona sulla terra.
Il messaggio di Fatima dà un’enorme importanza alla questione della sofferenza, con dei riferimenti che potrebbero sembrare addirittura scandalosi, agli occhi del mondo. Ne sottolinea il valore positivo, redentivo e addirittura la esalta e la incoraggia, anche nei bambini. Il mondo, secolarizzato, non comprende il significato della sofferenza, ancor meno quando riguarda i bambini o persone innocenti: si scandalizza e non ritiene possibile che la Madonna, al contrario, chieda proprio ai Pastorelli se sono disposti a soffrire. Se Dio è buono, perché permette la sofferenza, soprattutto nei bambini: cosa hanno fatto di male per soffrire?
Ogni peccato, anche il più intimo, è un peccato “sociale”, perché la comunità subisce fatalmente le conseguenze delle mancanze dei suoi membri: siamo tutti legati a un unico corpo. Abbiamo perso questo senso, perché viviamo in una società individualista; il peccato crea danni fisici e spirituali a tutta la società, anche se a volte non è immediatamente evidente: peccati, che devono essere riparati. La riparazione fa parte della vita della società, a tutti i livelli. Si riparano le strade, quando sono danneggiate; le case; si curano i corpi umani; qualcuno deve agire, i medici sono necessari per guarire, in modo che il corpo del malato sia di nuovo sano: quasi sempre, chi ripara non è colui che ha fatto il danno. Se qualcuno viene picchiato, da qualche delinquente, non saranno certo loro, i malfattori, a guarirlo… a meno che non si pentano profondamente! E questo accade anche a livello spirituale, ecclesiale. Infatti, la Chiesa può aver subito gravi danni, il corpo mistico di Cristo profonde ferite. Tutto questo può essere riparato dalla sofferenza più innocente possibile. Questa è la cura e i migliori medici che possono guarire il corpo della Chiesa sono i più innocenti, come i Pastorelli o altri come loro.
Questa sofferenza diventa, così, il generoso strumento di misericordia nelle mani di Dio, la potente leva per salvare il mondo dall’abisso del peccato. I malati, i sofferenti, sono i veri parafulmini, che proteggono gli uomini dal castigo divino; non è il dolore dei criminali che ripara, come diceva Padre Pio a chi si lamentava di soffrire ingiustamente. Questo genera una rivolta contro Dio e contro tutti e tutto, come un’anticipazione dell’inferno. La Madonna, al contrario, per riparare ha scelto i Pastorelli.
Gli innocenti, come Gesù – che è l’innocenza personificata – soffrono a sua immagine e somiglianza, e la sua offerta è il profumo più accettato dal Padre, perché è sofferenza pura, non mescolata al male: vale di più, è più efficace. Gli innocenti, dunque, non sono corrotti da quei peccati, che bloccano questo processo di riparazione.
Ma, allora, noi che non siamo innocenti come Nostro Signore, o come i Pastorelli, possiamo ancora essere strumenti di riparazione? Se abbiamo perso l’innocenza, possiamo recuperarla, perché nulla è impossibile a Dio. L’innocenza ha a che fare con la purezza: cioè, col rimettere Dio al centro della nostra vita. Per riacquistarla, quando l’abbiamo persa, dobbiamo purificarci, liberarci da tutto ciò che può ostacolare o rallentare l’azione santificatrice di Dio nella nostra anima, tenendo presente la nostra grande dignità di figli di Dio.
Questa certezza ci deve stimolare a fare della nostra persona un degno tempio dello Spirito Santo, contraddicendo la mentalità materialista, che regna nella nostra società, per la quale l’essere umano è semplicemente un agglomerato di materia e, come tale, è privo di quella dignità, rispetto e responsabilità morale che solo la fede cristiana gli sa riconoscere e che, oltre ad alimentare in lui la tensione ad una pienezza di vita e di gioia nell’eternità, è alla base di ogni forma di società veramente civile, già qui in terra.
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