Pillole di SpiritualiTà
Coltiva l'intimità con lo Spirito Santo — il Grande Sconosciuto — perché è Lui che ti deve santificare. (San Josemaría Escrivá)
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LA SCHIAVA DIVENUTA SANTA
di Paola Buson
Nacque nel 1869 ad Olgossa, un piccolo villaggio del Darfur (Sudan). All’età di sette anni, fu rapita da mercanti arabi e venduta più volte come schiava. Per il trauma subito, dimenticò il proprio nome e quello dei propri familiari: i suoi rapitori la chiamarono Bakhita, che significa "fortunata". Conobbe le sofferenze fisiche e morali della schiavitù. In particolare, subì un tatuaggio cruento mentre era a servizio di un generale turco: le furono disegnati più di un centinaio di segni sul petto, sul ventre e sul braccio destro, incisi poi con un rasoio e successivamente coperti di sale per creare delle cicatrici permanenti.
Nel 1882 viene comprata a Kartum dal console italiano, Calisto Legnani, residente in quella città, con il proposito di restituirla alla propria famiglia, ma ciò non fu possibile per il vuoto di memoria della bambina riguardo ai nomi del proprio villaggio e dei propri familiari. Nella casa del console Bakhita visse serenamente per due anni lavorando con gli altri domestici senza essere più considerata una schiava. Nel 1884 il diplomatico dovette fuggire dalla capitale in seguito alla guerra e la affidò alla famiglia dell’amico Augusto Michieli, residente in provincia di Venezia, e diventò la bambinaia della figlia. Dopo tre anni, la famiglia Michieli si trasferì in Africa dove possedeva un albergo. Bakhita restò per un po’ di tempo con la loro bambina presso le Suore Canossiane di Venezia. Qui ebbe la possibilità di conoscere la fede cristiana. Quando la signora Michieli ritornò dall'Africa per riprendersi la figlia e Bakhita, quest'ultima, con molto coraggio e decisione, manifestò la sua intenzione di rimanere in Italia con le suore Canossiane e, il 9 gennaio 1890, chiese il battesimo prendendo il nome di Giuseppina. Nel 1893, dopo un intenso cammino di fede, decise di farsi suora canossiana per servire Dio che le aveva dato tante prove del suo amore. L'8 dicembre 1896 pronunciò i primi voti religiosi.
Nel 1922 fu trasferita nel convento di Schio, dove trascorse il resto della sua vita. Qui lavorò come cuciniera, sagrestana, aiuto infermiera, portinaia. Tale servizio la mise in contatto con la popolazione che prese ad amare questa insolita suora di colore per i suoi modi gentili, chiamandola “Madre Moreta”. Il suo personale carisma e la sua fama di santità vennero notati dai suoi superiori, che a più riprese le chiesero di dettare le sue memorie. Nel 1930 venne intervistata a Venezia da Ida Zanolini, laica canossiana e maestra elementare, la quale nel 1931 pubblicò il libro Storia Meravigliosa che venne ristampato 4 volte nel giro di sei anni. Un secondo manoscritto è andato perduto, probabilmente distrutto dalla stessa Bakhita. Intanto si diffondeva la fama della “madre Moreta” e l’elenco delle località visitate da Bakhita nelle sue missioni in Italia, si allungava, comprendendo anche le grandi città, come Bologna, Ancona, Milano, Firenze, Modena, Padova, Venezia…In ogni incontro è la suora accompagnatrice a parlare alla gente delle missioni e a presentare Bakhita e la sua storia. Poi è Bakhita ad alzarsi e ripetere spesso poche frasi, pronunciate a stento, in dialetto veneto, ma che colpiscono e si imprimono nei cuori: “Io sono qua, il Signore è stato tanto buono con me. Lui vuole bene a tutti. VogliamoGli bene e non offendiamoLo più con il peccato.”
Dal 1939 cominciò ad avere seri problemi di salute e non si allontanò più da Schio. Morì l'8 febbraio 1947 dopo una lunga e dolorosa malattia. Beatificata da Giovanni Paolo II il 17 maggio 1992, fu da lui stesso canonizzata il 1° ottobre del 2000. Dal 1969 riposa nel Tempio della Sacra Famiglia del convento delle Canossiane di Schio.
Il carisma e la spiritualità di Bakhita
Le persone che le vivono intorno, ad un certo momento cominciano a cercarla, a chiederle il suo conforto, a domandare preghiere. Imparano l’umiltà, la povertà totale, la serenità, la cortesia, la gioia e il sorriso che sempre emergono dal suo nero viso. Il suo più grande desiderio è dialogare con Dio: il “Paròn” (il Padrone”), come lo chiama lei. Un Padrone al quale bisogna sempre ubbidire, non per forza, per obbligo, ma per amore; …l’obbedienza piace tanto al Signore! Un Padrone buono, che non lascia mai da solo il suo servitore e lo guida in ogni momento della sua vita: “Io do tutto al Paròn, e Lui penserà a me: ne è obbligato”. Così riesce sempre a fare la volontà di Dio con gioia, senza mai mostrare stanchezza. E lei prega, ore e ore davanti al Tabernacolo, davanti al Crocefisso, per imparare ad amarlo meglio. Lei non ha paura della morte, perché quando una persona ama tanto l’altra, desidera di andarle vicino; la morte ci porta a Dio. … Ebbe la coscienza perfetta del momento della morte e più volte aveva ripetuto: “Dopo morta non farò paura a nessuno e pregherò per voi”. Infatti il suo corpo si conservò bello, composto, flessibile, con le labbra rosse come fosse vivo per alcuni giorni. La salma fu visitata da una folla strabocchevole. Tanta e tanta gente ancora oggi viene esaudita e riceve grazie su grazie per intercessione di quella “Madre Moreta” diventata santa. A conferma di ciò ci resta l’evidenza: con le sue sofferenze e la sua morte Bakhita ha come moltiplicato la grazia di Dio sull’umanità. Intercessioni di ogni tipo, conversioni, guarigioni, ricomposizioni di famiglie e di liti. Una scia misteriosa e interminabile di amore, fecondità e forza spirituale, desiderio di dialogo e di riappacificazione che attraversa il mondo intero e che soprattutto in Africa sta portando tanti frutti. “Se il Signore lo permetterà – afferma più volte nei mesi e nei giorni che precedono la morte – dal paradiso manderò tante grazie per la salvezza delle anime”. E’ la logica conseguenza di una vita interamente spesa nell’amore di Dio e per riportare a Dio le sue creature. Così, quando la malattia non le consente più di far seguire l’azione alla preghiera, la richiesta di grazie per chi pecca e per chi soffre diventa il suo impegno principale. Ormai incapace di muoversi, afferma: “Ora la mia occupazione è questa: aiutare tutti con la preghiera”. Con la fondatrice Maddalena di Canossa condivide la devozione al Crocefisso e all’Eucarestia, così come la passione per la preghiera e per l’umiltà. Una passione che è testimonianza e indica la strada del cristiano.
Quando raccontava la sua storia, lei aveva il solo desiderio di far valere Dio ben al di sopra della sua persona. Raccontare le pesava, ma “Per la gloria di Dio, per esaltare la potenza di Dio che mi ha fatto conoscere la salvezza…”. La suora sudanese interpretava la sua vita, convinta che la mano di Dio l’avesse guidata fin dal primo momento. Anche se aveva dovuto sopportare sofferenze inaudite, che lei mai considerava per sé stessa; le pesava di più la notorietà, tanto era umile e desiderosa di non essere distolta dall’unione con Dio. Negli ultimi anni della sua vita, costretta a trascorre gran parte della giornata a letto, sopportò sempre con pazienza i dolori unicamente preoccupata di fare la Volontà di Dio e, quando le chiedevano come si sentisse, rispondeva sempre “Come che il Signor ghe piase: l’è Lu ch’el comanda.” (Come piace al Signore, è Lui che comanda). Nella sofferenza affronta il dolore con grande serenità fino al momento della morte. La sua massima preoccupazione nella malattia, oltre alla preghiera costante a all’offerta totale a Dio, è di non dare disturbo ad alcuno. Non si lamentava mai, sempre contenta di tutto e di tutti riconoscente per chi la curava, credendosi indegna di tante cure.
Ci sono due episodi che Bakhita custodì nel suo cuore per tanti anni e che lei confidò in stretta confidenza. Il più doloroso e umiliante, avvenne in adolescenza, quando era schiava da un generale turco. Egli la guardava crescere con compiacenza, ma non gli piacevano le sue forme, così pensò di torcerle le mammelle per giorni affinché non prendessero forme spiccate. Ma aveva sempre mantenuto la castità, nessuno mai l’aveva toccata, grazie all’intercessione della Madonna e alla protezione del suo angelo custode, come ha sempre sostenuto lei, in tutta la sua vita. L’altro, di maggior impatto spirituale e mistico: vide una bianca figura luminosa (il suo angelo custode) una prima volta nella foresta, in fuga dai rapitori con una compagnetta, indicare loro il percorso e così sfuggire alle belve. Una seconda volta, poi, nell’aprire la porticina che porta al presbiterio, nella casa di Schio, occasione che le ricordò il primo incontro nella foresta. Suor Giuseppina comprende appieno la straordinaria importanza dell’evento, quale dimostrazione che Dio l’ha sempre amata e guidata anche quando lei non sapeva della sua esistenza. Degli angeli custodi parlava spesso ai bambini e insegnava loro a seguire e a non rattristare l’angelo custode. Secondo la prassi secolare dell’Istituto dei Catecumeni delle Canossiane, il neofita, una volta ricevuto il battesimo, restava ancora un anno per completare la conoscenza della fede cattolica. Trascorrono quattro anni in cui Bakhita trova piena tranquillità, conforto emotivo e spirituale, calore umano e disponibilità. È qui che la giovane africana inizia a prendere dimestichezza nel dialogo con “el Paròn” e con la Madonna, via via assunti nella sua vita come padre e madre. È qui che cominciano le lunghe soste di meditazione davanti al Cristo Crocefisso, al Tabernacolo, all’immagine della Madonna. E alcuni decenni dopo, davanti al piccolo fonte battesimale della chiesa dov’era stata battezzata, esclamò: “È proprio qui che sono diventata figlia di Dio…mi (io) povera negra, mi (io) povera negra”. E “avere la Madonna per mamma è un grande conforto”.
“Il Signore è sempre stato buono con me in tutta la mia vita”. “Il Signore mi ha sempre voluto bene”. “Tutta la mia vita è stata un dono di Dio”. Sono alcune delle frasi con le quali a volte Bakhita risponde a chi chiede di raccontargli la sua storia. Potessimo anche noi arrivare ad una grande fede e ad una profonda umiltà come la sua.
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